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Tra sogno e realtà, tra vita e morte, tra solitudine e solidarietà: ONEIRON di Laura Lindstedt

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In occasione del compleanno di Laura Lindstedt, scrittrice originaria di Kajaani, capoluogo del Kainuu, vi propongo un’analisi del suo capolavoro Oneiron. (ATTENZIONE SPOILER!)

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Sulla vita dell’autrice

Laura Lindstedt nasce a Kajaani nel 1976. Dopo un Master all’Università di Helsinki in Filosofia, si dedica alla scrittura e allo studio della letteratura, occupandosi in particolare dei problemi di comunicazione nelle opere dell’autrice francese Nathalie Sarraute. Tra i suoi interessi ci sono il francese, la storia, la semiotica e la storia dell’arte. Scrive diverse recensioni, articoli e essays in alcune riviste internet come Filmihullu, Kiiltomato.net e Nuoren Voima (della quale è stata presidentessa nel 2011-2012). Tra il 2001 e il 2004 lavora come curatrice dei volumi Suomen kulttuurihistoria 1–5. Come scrittrice esordisce nel 2007 con il romanzo Sakset (“Forbici”), candidato al prestigioso Premio Finlandia. Nel suo primo romanzo, la Lindstedt mette in mostra le aspettative e le paure di una donna, Maria, che adotta una bambina cinese.

Il suo secondo pluripremiato romanzo, Oneiron, uscito nel 2015, è candidato al premio Runeberg; vince i premi Varjo, Toisinkoinen oltre che l’atteso e rinomato Premio Finlandia. In occasione della cerimonia di consegna dell’ambito riconoscimento letterario finlandese, la giovane scrittrice pronuncia un discorso impegnato schierandosi apertamente contro la società classista e contro le politiche dei tagli all’istruzione del primo ministro finlandese Juha Sipilä. Condanna, altresì, l’impossibilità di un dibattito serio e civile nella società contemporanea

dove il vacuo spirito della lotta ha preso il posto della civiltà, in cui insultare e minacciare con la violenza sono la normalità del comunicare. Al posto del ragionamento, ci sono le reazioni armate; invece delle argomentazioni, le bombe molotov. La politica del governo finlandese improvvisata ma ideologicamente tendenziosa, mina il sentimento generale di sicurezza. I neoliberali raccontano la loro ideologia e intanto le briciole che rimangono sulle tavole dei ricchi cadono nella bocca del povero[1].

La durezza delle sue parole unita al sentimento di impegno politico e civile testimoniano come Laura Lindstedt si collochi a pieno titolo come erede di quella tradizione tipicamente ugrofinnica di intellettuali civilizzatori. Emblematiche a tal proposito le parole che proferisce nella stessa cerimonia:

Mi sono resa immediatamente conto che dovevo dire qualcosa, qualcosa di diverso da quei normali e formali complimenti, che dovevo fare buon uso di questo spazio che mi si offriva. Era il mio momento, dinanzi a me c’era la platea più grande che una scrittrice o scrittore possa mai avere in Finlandia. Ho sentito direi addirittura il dovere di segnalare alcuni problemi sociali di cui ci trovavamo (e ci troviamo) ad occuparci[2].

Trama

Immagina, sei quasi ceca.

Il libro si apre con un’immagine sfocata e indefinita: Ulrike, diciassettenne austriaca, si vede comparire di fronte agli occhi ancora appannati strane figure che lentamente prendono la forma di sei donne. Queste si apprestano a dare piacere alla ragazzina che, in preda alla confusione e al piacere, riacquista poco a poco la vista scoprendo di essere in un posto accecantemente bianco, stranamente silenzioso in compagnia di estranee che l’hanno violata e che la guardano con occhi curiosi. Dopo un primo momento di imbarazzo, paura, rabbia e disorientamento, Ulrike segue le donne, fluttuando, verso un lontano punto rosso: si tratta della parrucca di Wlbgis, la più taciturna, che funge da fuoco intorno al quale radunarsi per raccontarsi delle storie, le storie delle loro vite. La giovane arrivata viene incitata dalle altre a parlare di sé: le memorie dolorose e sfumate s’impongono nella mente di Ulrike che proprio non riesce a ricordarsi come è arrivata lì. Rosa, brasiliana melodrammatica, è l’unica che manifesta ancora un briciolo di sentimento e la prende tra le braccia per calmarla. Proprio in quel momento, gli occhi scuri e malinconici della latinoamericana s’illuminano di una nuova consapevolezza. Ecco che l’amichevole Rosa, in una sorta di trance, pronuncia improvvisamente e inaspettatamente un’oscura parola, ON-EI-RON, e inizia a dissolversi. La paura dell’ignoto e dell’irrazionale si impossessa delle altre donne che temono di proferire quella incomprensibile formula magica. Chissà dove le avrebbe condotte.

Nel frattempo iniziamo a conoscere, attraverso i loro pensieri e i continui flashbacks, anche le altre donne. La prima a prendere la parola è Shlomith, artista ebrea newyorkese, che è anche la prima a essere approdata lì. Come in un rito convenzionale, ormai ben conosciuto, le sconosciute spiegano che in quel non-luogo non si prova più nulla: fame e sete, necessità fisiologiche e piaceri non esistono più, per questo hanno approfittato di Ulrike. Ancora fresca dal mondo terreno, infatti, sarebbe stata in grado di provare certe sensazioni solo per poco ancora; ciò che è successo l’hanno fatto sia per lei, sia per loro stesse, rompendo la noia del vuoto. La loro non-vita si svolge in un tempo e in uno spazio indeterminati, in un limbo caratterizzato dalla monotonia e dalla ripetitività del nulla, dove fluttuano quasi come in assenza di gravità.

Ormai insensibili e alla ricerca di una spiegazione razionale per tutto quello che sta accadendo, cercano di aggrapparsi a qualcosa che ricordi loro la vita terrena, qualcosa di familiare e reale. Decidono allora di utilizzare i loro vestiti per creare una sorta di casa, cioè di riempire quello spazio indefinito delimitandolo con calzini e pantaloni, i quali diventano muri e porte. Questo luogo fungerà da punto di ritrovo, di condivisione e di normalità. La parrucca rossa di Wlbgis sarà una sorta di faro che permette loro di tracciare un confine, uno spazio sicuro, intorno al quale condividere le loro storie. E infatti, nel silenzio assordante del limbo, il suono della voce è l’unica cosa che tiene compagnia a queste donne, evocando i loro ricordi. L’unica cosa, in breve, che le mantiene ancora “vive”.

Ma perché si trovano lì? Qual è il loro scopo? Sono forse morte? No, la testarda ebrea newyorkese Shlomith si rifiuta d’accettarlo. Iniziano allora un gioco per sopravvivere alla monotonia e per infondersi coraggio a vicenda: siedono intorno al “fuoco” e si raccontano a turno come potrebbero essere morte. Questo è il pretesto per ripercorrere le proprie vite, per imparare a conoscere se stesse e le altre e riappropriarsi della propria identità. Vediamo più da vicino queste sette donne.

Ulrike è l’ultima arrivata, la novità, qualcosa di gustoso che può togliere per un attimo le altre dalla noia e della ripetitività del nulla. Attraverso flashbacks confusi, si tenta di ricostruirne la vicenda. È stato forse Hanno, il fidanzatino geloso a ucciderla? Oppure l’affascinante quarantenne che lavora con lei nella baita dove fa la cameriera? D’altronde quest’ultimo le aveva dato un passaggio e si erano quasi baciati. L’ultima cosa che ricorda è che voleva andare a casa di Hanno per rompere con lui. In realtà, tutte le congetture che fa la ragazzina sulla propria morte si riveleranno sbagliate, così come le supposizioni delle altre donne sulle circostanze delle proprie morti. Ulrike è stata stuprata e soffocata da un camionista che l’aveva trovata per strada mezza sbronza e in reggiseno mentre tornava dal lavoro a piedi. 

Poi c’è Maimuna, una bellissima quanto ingenua ragazza del Mali che sogna d’andare a Parigi per fare la modella. Purtroppo rimarrà vittima degli inganni dello zio che le promette la “libertà” di scelta e di viaggiare in cambio di un favore: portare una cintura piena di qualcosa di misterioso a Timbuctù. D’accordo con lo zio, i terroristi la intercettano e la portano in mezzo al deserto, insieme ad alcuni compagni di viaggio europei appena conosciuti. Cerca di salvarsi dicendo di essere incinta nella speranza di suscitare la pietà dei terroristi, ma non sa che quella bugia le costerà la vita: ormai diventata inutile ai suoi aguzzini che non possono più come vergine, verrà uccisa.

Nina, invece, è una donna benestante francese, amorevole, fantasiosa, efficiente, tenera, determinata, pragmatica, analitica: sarà proprio una madre perfetta per i gemelli che porta in grembo. Peccato che una sera, mentre si trova sola a casa, abbandonata per l’ennesima volta dal marito infedele, Nina non sente più muovere i bambini. Decide di vestirsi velocemente e andare in ospedale. I suoi ricordi finiscono qui ma pian piano riesce a ricostruire la sua storia: correndo per prendere la metro in arrivo, inciampa e, cadendo, sbatte la testa contro la metro. Per lei non ci sarà nulla da fare ma i gemelli saranno salvati.

C’è anche Wlbgis, una donna olandese infelice e invisibile. Il cancro alla gola, che le ha già portato via l’uso di parlare naturalmente, la sta lentamente uccidendo. Frutto delle sue scappate giovanili, un figlio delinquente che la picchia. L’unica cosa buona che questo ragazzo abbia mai fatto è Melinda, la dolce e amorevole nipotina di Wlbgis, l’unica che la va a trovare e che le vuole bene. La sventurata morirà agonizzante nell’indifferenza generale di un freddo ospedale di Zwolle, nei Paesi Bassi.

Rosa Imaculada è quella più restia a raccontare la propria storia. Povera parrucchiera delle favelas brasiliane, la sua unica gioia è il figlioletto nato da un incontro appassionato durante il carnevale di Rio. Già durante la gravidanza si accorgerà di avere grossi problemi cardiaci che la porteranno alla morte se il cuore non verrà sostituito. Dopo tanta attesa, finalmente arriva il trapianto: il cuore è di Muriño, un ragazzo di buona famiglia morto in un incidente stradale. L’operazione e la guarigione procedono bene ma Rosa si accorge di provare le sensazioni del donatore e di sentire i suoi pensieri prima della morte. Fa lo sbaglio di confessarlo al padre del ragazzo che inizierà a tormentarla per continuare ad avere un contatto col figlio, diventando sempre più violento. Un giorno questi le somministra una polvere bianca che pare aiutarla a sentire meglio Muriño. Ma nel corso dell’incontro, il facoltoso imprenditore, in preda alla rabbia che prova nei confronti del figlio, ucciderà la medium.

C’è poi Polina che lavora come responsabile contabile per una ditta teatrale a Mosca. Sicura, razionale, lettrice assidua di classici e saggi filosofici, è però incompresa e non riesce a instaurare amicizie o contatti con l’altro sesso. La solitudine la porta a rifugiarsi nei libri e nell’alcol, che sarà proprio la causa della sua morte. Infatti, una sera, da ubriaca, cade in un tumulo di neve e muore assiderata. Polina si contrappone a Shlomith, una famosa artista ebrea americana, la prima ad essere arrivata e la più anziana. Entrambe sono donne sicure di sé e hanno un carattere irascibile, oltre che ideali diversi. Polina non riuscirà a capire le scelte di vita della compagna.

A Shlomith viene dedicato molto spazio nel libro: si ripercorre la difficile giovinezza di questa donna, sottolineandone le difficoltà e i turbamenti che l’hanno avviata all’anoressia e, in generale, a comportamenti estremi. Infatti, l’oppressione e le contraddizioni delle convenzioni ebraiche unite alle troppe premure di una madre asfissiante, iperprotettiva e tradizionalista, la porteranno a rigettare il cibo come atto di autodeterminazione del proprio corpo. Ciononostante non darà la colpa alla sua famiglia, ma dirà di essere predisposta geneticamente alla magrezza grave. Verrà momentaneamente salvata dal fascino di Dovid, che diverrà suo sposo e dal quale avrà due bambini. Questa felicità le verrà presto portata via, così come la sua famiglia: nel kibbutz[3] di Methuselah dove si sono trasferiti i giovani sposini con tanti ideali, la vita diventa sempre più monotona, oppressiva, meccanica, robotica. Tutto è collettivizzato; non si ha né indipendenza, né libertà di scelta; bisogna rispettare devotamente le regole; non bisogna obiettare, né fare domande; i bimbi vengono portati via dalle madri quasi subito dopo la nascita per essere educati all’obbedienza e alle norme. Shlomith, che cerca di ribellarsi, verrà isolata e se ne andrà. Da quel momento in poi decide di non essere più conforme alla norma, ma di essere a-normale e di fare del suo corpo e della sua vita un’opera d’arte. Nonostante i nemici religiosi che si oppongono alle sue performances, minacciandola persino di morte, e la magrezza assoluta che la indebolisce, Shlomith continua incurante nella sua missione perché l’arte è sofferenza. Emerge, dunque, la caparbietà, la decisione, la forza di volontà di questa donna intelligente e controversa che morirà per anoressia dopo la sua ultima grande performance del 2007.

 Poco a poco le sei donne rimaste (Rosa era svanita prima di tutte) prendono forza e si preparano finalmente a pronunciare la fatidica parola: ON-EI-RON. Si stringono la mano e la dicono tutte insieme. Ecco che si ritrovano unite nel momento della morte di ognuna, rincontrando anche Rosa Imaculada: come anime fluttuanti osservano gli ultimi minuti di vita di ognuna di loro e vedono cosa è davvero successo. Ciascuna riesce a trovare la via del trapasso aiutata dall’appoggio delle compagne. L’unica che non riuscirà in questo è Polina che tenterà di salvarsi perdendo il momento giusto per andarsene. Tornerà, dunque, nel limbo scordandosi delle sue compagne e della sua storia, e dovrà ricominciare di nuovo questo percorso con altre donne sventurate.

L’ultima grande performance di Shlomith: anoressia e ebraismo

Nelle sue performances, Shlomith dà luogo a spettacoli sconvolgenti, scandalosi, irriverenti, eretici e talvolta quasi osceni. Ne è un esempio la Food Meditation del 1976, uno spettacolo di 6 ore nel quale Shlomith si travolge prima in una vasca piena di latte e poi in una di agnello fritto, bevendo e mangiando avidamente. Tra le vasche c’è una clessidra con la sabbia di Gerusalemme. Per 20 minuti la ragazza se ne sta senza vestiti al freddo per poi rimmergere nel cibo; suggella il successo nel 1983 quando se ne sta nuda con mollette da bucato che le indolenziscono le parti intime, spille da balia nella pancia e segni di frustate e percosse. In questo stato, legge dei brani sui tentativi dei teorici giudaici successivi alla Shoah di spiegare al meglio la volontà di Dio[4], mettendo in ridicolo il sadico masochismo divino.

Per l’ultima sua singolare e straziante performance del 2007 al Jewish Musem di New York, Shlomith si prefigge un peso target di 30 kg, una magrezza grave che la porterà alla morte, ma d’altronde per guarire è dovuta, dice lei, scendere fino in fondo e guardare il mostro negli occhi. Denudandosi davanti al proprio pubblico, denuncia le connessioni tra l’anoressia e l’ebraismo e riporta dati e statistiche reali. In questa vera e propria conferenza, Shlomith fa notare come le donne ebree (specialmente quelle laiche), soffrano spesso di disturbi alimentari per diversi motivi, tra cui il non esser soddisfatte del proprio corpo. Confrontandosi, ad esempio, con le donne americane, si vedono, infatti, troppo corpulente e i tratti somatici sono troppo marcati. Per tentare di risolvere il problema, oltre alla terapia, queste donne ricorrono spesso all’uso di piastre per capelli, di diete e alla chirurgia plastica. Rigettano la propria identità ebraica, arrivando addirittura a cambiare nome per sentirsi meno ebree.

Tra gli ebrei ortodossi, poi, i matrimoni combinati richiedono che la sposa sia magra, simbolo di purezza, innocenza e pubertà. Shlomith condanna il fatto che le mogli siano usate solo per procreare e che non abbiamo nessuna libertà: ecco che chi non vuole sottostare a questo ruolo prende a curarsi del proprio corpo come unica “proprietà privata”. A ciò si lega la concezione del ciclo mestruale come qualcosa di estremamente negativo per i dogmi della religione ebraica. L’impurità della donna in quei giorni del mese è combattuta con una serie di complessi riti volti alla purificazione spirituale e corporale (es. riti d’immersione). Un altro modo per “curare” questa impurità è la gravidanza; la donna ebrea che vuole esser più indipendente e non ridursi a mera macchina procreatrice, fa in modo di stoppare il flusso mestruale con l’anoressia.

Anche le severe regole di conservazione e preparazione dei cibi, unite a una alimentazione irregolare che prevede abbuffate seguite da periodi di digiuno, favoriscono senz’altro i disturbi alimentari. Come ultimo punto, Shlomith afferma che essendo il cibo il simbolo opposto alla schiavitù e alla povertà, alcuni ebrei decidono di astenersene per commemorare le vittime dell’Olocausto.

Commento

Questo romanzo è diviso in due parti: la prima è quella dell’incontro, della conoscenza di sé e dell’altro, della progressiva presa di coscienza; la seconda è quella della resa dei conti, del trapasso dell’anima.

È Ulrike che ci introduce nel limbo e all’inizio ci si concentra sui suoi sentimenti contrastanti, sulle sue sensazioni confuse, sui suoi ricordi sfocati. Nelle prime pagine sembra che la ragazzina austriaca sia la protagonista delle vicende ma ben presto si capisce che non è così. Tutte le donne, infatti, hanno un ruolo primario e Ulrike è, in quanto ultima arrivata, il pretesto per descrivere ciò che tutte le altre, giunte prima di lei, hanno provato. Pertanto di lì a qualche pagina irrompono anche i pensieri e i flashbacks delle altre, in un rincorrersi di presente e passato. Si tratta altresì di un romanzo corale e polifonico dove più coscienze individuali, caratterizzate da lingue, culture e personalità differenti, pervengono a una collettività che parla una sola lingua (come ben si vede nella seconda parte quando si capiscono pur parlando ognuna la propria lingua). La multiculturalità e i conseguenti problemi di comunicazione innescano una riflessione su temi profondamente attuali e ciò non stupisce se si considera che l’autrice stessa ha definito Oneiron un lavoro “politico” per via dei temi esposti e per il sesso delle protagoniste: si tratta di un inno contro il pregiudizio e il dilagante timore razziale, un incitamento alla comprensione e all’accettazione reciproche. E questa nuova saggezza si conquista attraverso la maturazione e la progressiva consapevolezza di sé e dell’altro, attraverso, dunque, quel percorso iniziatico caro alla tradizione sciamanica ugrofinnica. Ecco che la tradizione irrompe più o meno consciamente in diversi aspetti della narrazione. In questo caso, la renovatio inizia con la morte che porta le donne, grazie alla condivisione, a riappropriarsi delle loro identità sfruttate, violentate e abbandonate.  Insieme supereranno le proprie paure e i propri limiti, andando oltre le differenze personali che le contraddistinguono. In un non-luogo in bilico tra regno terreno e regno ultraterreno, tra vita e morte, le protagoniste si allontanano sempre più dalla fisicità, dalla corporalità, configurandosi come anime-ombra che devono tornare indietro al momento del loro decesso per capirne la causa. Sembra qui intravedersi la concezione ugrofinnica della molteplicità delle anime: le anime corporee e l’anima-ombra (o “doppio”) che continua il suo percorso verso la conoscenza e la reincarnazione, superando dure prove.

In questo limbo in cui spazio e tempo non esistono s’indaga sulla spazialità dei corpi, sulla fisicità degli elementi. L’autrice si chiede:

come potrei riempire questo spazio non materiale con roba che ha a che fare con i sensi? Lo spazio bianco vuoto di per sé non offre nulla se non la libertà di immaginare, di visualizzare. Ecco perché in Oneiron ci sono temi molto fisici (legati al corpo), come la chirurgia dei trapianti di cuore e l’anoressia.[5]

Per colmare il bianco immateriale, l’autrice ricorre alla fisicità di oggetti (es. vestiti e parrucca), persone (le protagoniste), atti fisici e performativi (es. Il sesso, il racconto, la costruzione di uno spazio, la chirurgia, l’anoressia, il cancro, lo stupro). Idealmente riempie quel bianco con i colori che identificano i titoli dei capitoli finali dedicati alla morte e al trapasso di ognuna delle protagoniste. Mi spiego meglio, nella seconda parte si legge giallo: falce luminosa di compassione riferito a Maimuna e al giallo del deserto; turchese: quando niente è come (a volte) può sembrare, riferito al colore della metropolitana che conduce Nina ad una morte inaspettata; blu elettrico: se di rabbia si può morire, il colore delle bolle di cera che si muovono dentro la lampada che Melinda a regalato a Wlbgis; vermiglio, porpora, magenta: il cuore che respinge gli alberi di eucalipto rimanda al colore del papillon e della polo del padre di Muriño, alle pareti della camera d’albergo e, in ultima istanza, al cuore del ragazzo che non aveva intenzione di seguire la volontà del padre, imprenditore di alberi di eucalipto; blu come blu: lezioni d’amore dell’anello di Ulrike nella sua favola dove cerca l’amore vero; bianco: una nuova occhiata all’amore divino il colore del tumulo di neve sotto il quale muore Polina, riscaldata però dall’amore di Dio che l’accoglie nella morte; nero: la via d’uscita  la giacca di Shlomith che l’amica le mette addosso dopo la performance.

Interessante anche la contrapposizione di colori all’interno dei capitoli: nel limbo abbagliantemente bianco, monotono e silenzioso spicca il rosso caldo e confortevole della parrucca di Wlbgis. Il colore smorza, dunque, la ripetitività e il vuoto spaziale, diventando anche un residuo di quel vivace mondo terreno cui tutte cercano invano d’aggrapparsi.

Quello spazio bianco vuoto rimanda, inoltre, sia alla natura mortale degli esseri umani che alla difficoltà del processo creativo. Infatti queste sette donne hanno, così come la scrittrice, carta bianca e sono proprio loro a immaginare e scrivere le loro storie.

All’interno di questo biancore “a-spaziale”, il “fuoco” esercita una funzione fondamentale: come già accennato, il posizionamento di questa parrucca permette alle donne di creare una dimensione in cui muoversi, una base cui ritornare, un punto intorno al quale radunarsi per parlare.

Perché non è così, che tutte le storie del mondo sono state raccontate almeno una volta intorno a un fuoco? Per esempio la leggenda per cui il mondo è nato da un uovo, il cavallo dalla sabbia, il puledro dalla spuma del mare, il lupo da una donna fecondata dal vento, il ferro dal seno degli spiriti della natura, il gelo da un verme che allatta senza capezzoli. La sofferenza da una pietra del dolore che si è frantumata contro la montagna del dolore. Il cancro da una sfera d’oro tirata a riva da una volpe. La morte da una freccia ricavata da i trucioli dell’albero del mondo. E il sangue l’ha portato il figlio dell’estate! Poi più tardi, quando gli uomini si sono accasati per bene, si sono soffiati il nasino e asciugati le lacrimucce, quando si sono accomodati accanto al crepitio confortante di un fuoco, allora le confessioni hanno potuto avere inizio.[6]

Forse un rimando all’antica usanza di raccogliersi intorno al focolare domestico per condividere leggende e esperienze.

Laura Lindstedt afferma di aver scritto questo romanzo per esorcizzare la paura della morte. Mentre lavorava al tema dice di essersi imbattuta per caso nella parola Oneiron, che in greco indica il sogno. Quale espressione, allora, se non Oneiron, sarebbe potuta essere il titolo per la sua opera, visto che il sogno è un modo eufemistico di definire la morte[7]? 

[…] in Oneiron non offro alcuna spiegazione del significato della parola, la utilizzo piuttosto come una sorta di formula magica[8].

E infatti, si configura proprio come un incantesimo che serve a ogni individuo della comitiva per prendere consapevolezza della propria morte. Si ricordi come nella tradizione ugrofinnica, la conoscenza delle parole, viste come qualcosa di magico e potente, e dell’origine delle cose, era un modo per dominare gli eventi (si pensi all’importanza delle formule magiche nel Kalevala, agli eroi che si sfidano tramite l’arte della parola, ai canti d’origine, etc.). Rosa Imaculada è la prima a pronunciare queste sillabe e a scomparire, ad accettare e a lasciarsi andare, mentre le altre impiegano più tempo, cercando disperatamente delle spiegazioni logiche. Interessante è la digressione filosofica di Polina sulle idee del mistico svedese Emmanuel Swedenborg a proposito di un universo tripartito, dove il mondo ultraterreno è lo specchio di quello terreno, che ricorda per alcuni aspetti, la concezione cosmologica dell’universo ugrofinnico e dei mondi speculari e capovolti in interazione reciproca.

Emblematica anche la scelta di 7 donne, numero sacro in molte culture, compresa quella ugrofinnica. Tra i personaggi più degni di riflessione c’è in primis la già citata Shlomith, artista impegnata a far ragionare il pubblico con la propria arte, in linea con la tradizione ugrofinnica degli intellettuali civilizzatori. A tal proposito è importante il ruolo del pianto di gruppo catartico[9] nelle sue performances che rimanda a quel pianto rinnovatore e rigeneratore degli antenati, per cui il dolore assumeva una veste più sopportabile[10]. Va sottolineato, anche, che con lei la Fame, parte integrante della sua vita, diventa qualcosa di vivo e reale, diventa la sua amante[11] fin dal principio. Nel suo essere anoressica geneticamente si vede l’eco di quella predestinazione, in questo caso alla morte dovuta al disordine alimentare, propria degli antichi ugrofinni. Nelle ultime pagine, alcuni secondi prima di morire, Shlomith pensa:

Eravamo una comitiva abbastanza mitica, no? La comitiva della morte più mitica tra le mitiche! Se potessi sentire qualcosa, è garantito che ora proverei nostalgia. Nostalgia pura, edificante, in cui non si mescolerebbero tinte cupe e rinunce sofferte[12].

La nostalgia malinconica di qualcosa che è stato e che non potrà più essere è qui edificante perché nella comitiva, Shlomith ha trovato una spinta per superare i traumi della vita.

Anche Wlbgis è un personaggio estremamente melanconico. La sua malinconia nasce dal fatto che non sia mai riuscita, né in vita, né nella morte, ad affermare la sua voce. E come avrebbe potuto, con i pugni è difficile dialogare[13]. Il suo è un corpo straziato dal cancro e dalla violenza, umiliato; il suo animo non ha mai conosciuto la realizzazione e la felicità. L’olandese taciturna e anonima, potrebbe passare inosservata anche al lettore ma in realtà è un personaggio complesso. Il suo silenzio è sicuramente influenzato dal fatto che non possiede più la facoltà di parlare, ma anche se avesse potuto, sarebbe stata ignorata, come durante tutta la sua esistenza. La sua è, dunque, una scelta dettata dalla perdita di speranza negli altri e dall’incapacità di comunicare. L’atroce indifferenza a cui viene lasciata Wlbgis si riflette nelle tremende parole delle infermiere, le quali

Speravano che […] la signora Wlbgis facesse la pipì in modo pulito nel pannolone, che la signora Wlbgis avesse la diarrea il meno possibile. Speravano che alla signora Wlbgis venisse sonno. E che la morfina facesse effetto. E che la morte sistemasse tutto. Perché arrivati a questa fase la vita è solo sofferenza![14]

Dolore, accettazione passiva della sua condizione, ripetitività: la sua vita in ospedale non era tanto diversa da quella del limbo. Si tratta di una donna perennemente sottomessa che prova una gran rabbia: rabbia di non avere mai avuto abbastanza coraggio e fiducia in se stessa; rabbia di non aver avuto una vita felice e una fine dignitosa; rabbia di esser stata privata di tutto dal cancro e dalle altre donne che l’hanno costretta a cedere la sua parrucca e i suoi vestiti; rabbia di esser sola e in balia delle ciniche infermiere che non la considerano più come un essere umano, ma come qualcosa di già morto.

<<Xaliim, io mi sento che questa muore oggi, nel mio turno. Mica mi molli Questo sarebbe il mio exitus numero uno.>> […] <<tu di sicuro chissà quante morti avrai già visto>> […] <<che si prova?>> […] << Niente. Solo se è un bambino o un ragazzino è diverso. […]>> […] << Questa qui ha parenti?>> << C’è una secca, pallidina, che ogni tanto viene a trovarla con una bambina. Ha chiesto di chiamarla quando è finito tutto>> << Pure di notte?>> << Ha detto che va bene il mattino dopo>>[15]

Seppur rimanendo in una condizione di subordinazione, alla fine riesce almeno a rompere il suo silenzio e dire realmente cosa pensa delle sue compagne.

Interessante come la morte di Ulrike sia raccontata a mo’ di favola, una sorta di Cappuccetto Rosso rivisitato dove è il lupo a spuntarla. La sprovveduta ragazzina viene, infatti, ingannata, sale sul camion per riposarsi ed è lì che il lupo la sbrana. L’autrice sceglie la favola forse per sottolineare l’ingenuità di Ulrike ancora bambina, illusa da racconti che finiscono bene e alla ricerca del vero amore. E poi, essendo tedescofona, chi meglio dei fratelli Grimm poteva rappresentare la sua vicenda?

Ma alla fine, dunque, a fronte dei diversi backgrounds e personalità, cosa hanno in comune queste donne? Perché si trovano lì insieme? Cosa le unisce? Le unisce la morte e la solitudine. Si tratta, infatti, di donne abusate, incomprese, raggirate; di donne che sono state sole in vita e sole nel momento della loro dipartita. Ed è proprio nella morte, l’evento che le accomuna, che si ritrovano, scoprendo se stesse e ciò che non avevano conosciuto in vita: un gruppo, una comunità, il senso dell’amicizia e della solidarietà. Tutto è più semplice se affrontato in compagnia, in particolare in un non-luogo sconosciuto e oscuro come è il limbo. È proprio la comunità, legata al senso di solidarietà, che costringe queste sette donne a pensare, a fidarsi […] ed andare oltre[16] la simpatia, i capricci, il sesso, la gentilezza, le differenze linguistiche e culturali. È grazie al gruppo se ritrovano consapevolezza in loro stesse e se le loro identità prendono lentamente forma. Si danno la mano, si confortano e si aiutano a vicenda nel momento del trapasso vero e proprio. Finalmente non sono più sole.

Stile

La traduttrice Irene Sorrentino, nella sua nota introduttiva, riesce a farci capire come lo stile nuovo e personalissimo di Laura Lindstedt sia una delle ragioni che le ha valso il Premio Finlandia.

Il romanzo si compone di flashbacks, ricordi confusi, dialoghi e digressioni filosofiche. Tempo, durata e spazio non esistono, ma si costruiscono a partire dalla storia. Alla fantasia dell’autrice si unisce una ricerca scientifica importante, testimoniata da un corredo di note bibliografiche di articoli e saggi scientifici reali, in particolare relativi ai legami tra ebraismo e anoressia.

I periodi lunghi, a spirale, che seguono spesso il flusso di pensieri o di ricordi delle protagoniste e si smarriscono in frasi di cui si perde temporaneamente il senso per ritrovarlo alla fine, sono tempestati di anacoluti, inversioni, incisi, parentesi, ripetizioni, avverbi, sinestesie, riferimenti letterari più o meno espliciti. Interessante, anche, l’utilizzo dei neologismi che restituiscono le peculiarità caratteriali o fisiche delle sette donne, resi in italiano con due parole unite da un trattino (es. Grasso-e-gelatina, miss zuppa-di-miso, Nina Moltoincinta, Wlbgis Calvomuta, etc.) proprio per mantenere una certa fedeltà al prototesto e rispettare la forma agglutinante della lingua finlandese. La cosa che salta immediatamente all’occhio del lettore è la grande varietà di generi impiegati, sottolineata anche dal punto di vista grafico: dal racconto, all’elenco (es. tutte le qualità per cui Nina sarebbe stata una brava madre), dagli articoli di giornale alle canzoncine, dal testo di una conferenza ai necrologi, da brevi poesie a lunghe divagazioni filosofiche. Questa molteplicità si rispecchia altresì nella scelta dei registri. Infatti, ogni donna ha il proprio modo di esprimersi che ne rappresenta la personalità. Dunque, Oneiron si configura come romanzo corale e polifonico a tutti i livelli. L’alternarsi di lingue, poi, dona alle riflessioni del libro un’atmosfera cosmopolita che lo rende accessibile a un ampio pubblico anche al di fuori dei confini nazionali. L’autrice è stata abile a dare a ogni donna una propria voce, una voce che mi mescola alle altre in un continuo susseguirsi di interruzioni, divagazioni e cambi di discorso, dove passato e presente, memorie e pensieri si fondono. Ricordi confusi, flashbacks e associazioni d’immagini ci fanno ripercorrere, come in un sogno allucinato, gli attimi e le vite delle protagoniste, alternando detto e non detto, ciò che si pensa e ciò che davvero si dice. Il narratore si presenta come

una sorta di coscienza fluttuante, un collante che unisce le diverse trame[17].

Bibliografia e sitografia

[1] http://www.plpl.it/storia-da-piu-libri/oneiron-latroce-lucentezza-di-laura-lindstedt/

[2] https://www.alfabeta2.it/2017/01/08/laura-lindstedt/

[3] “[…] è una forma associativa volontaria di lavoratori dello stato di Israele, basata su regole rigidamente egualitarie e sul concetto di proprietà comune. Il kibbutz è nato come ideale di eguaglianza, di lavoro a favore della comunità; questo comporta, per ogni singolo individuo appartenente al kibbutz, l’obbligatorietà di lavorare per tutti gli altri. ricevendo in cambio, al posto di denaro, solo i frutti del lavoro comune, evitando così alla collettività di cadere nelle mani di quello che viene considerato il consumismo di stampo occidentale. […]” https://it.wikipedia.org/wiki/Kibbutz

[4] Cfr. Lindstedt, 2016, p. 216

[5] https://www.alfabeta2.it/2017/01/08/laura-lindstedt/

[6] Lindstedt, 2016, p. 34

[7] https://ilmanifesto.it/i-colori-delle-parole-nel-limbo-bianco-della-morte/

[8] https://ilmanifesto.it/i-colori-delle-parole-nel-limbo-bianco-della-morte/

[9] Lindstedt, 2016, p. 42

[10] Cfr. anche il mito di Fetonte e delle Elettridi.

[11] “[…] La fame s’infuriò ferocemente e minacciò di lasciarla per sempre, ma lei le chiese scusa e vomitò. […]” Lindstedt, 2016, p. 21; “ La fame era la cosa più importante, il suo grande amore. Come un’amica fedele combatteva insieme a lei contro i nemici, finché non commise l’errore della sua vita. La tradì. Per un uomo” ibidem; “[…]senza di te, fame, io già da tempo non esisterei più. Tu mi hai aiutato a resistere[…] Mi hai dato tutta te stessa, hai combattuto al mio fianco ma, non appena il compito è stato portato a termine, sono stata pronta a ripudiarti. […]” ivi, p. 373.

[12] Cfr. ivi, p. 374

[13] Ivi, p. 165

[14] Ivi, p. 151

[15] Ivi, pp. 324-325

[16] Cfr. ivi, p. 6

[17] https://www.alfabeta2.it/2017/01/08/laura-lindstedt/

Testi © Giulia Santelli

2 commenti su “Tra sogno e realtà, tra vita e morte, tra solitudine e solidarietà: ONEIRON di Laura Lindstedt”

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